Procedimenti ai sali ferrici

Tra le tante sostanze fotosensibili studiate nel XIX secolo alcune meritano un’attenzione speciale per l’applicazione e l’importanza che ebbero nella storia della fotografia: i composti del ferro sono tra queste.

Il principio di funzionamento delle carte ai sali di ferro può essere descritto brevemente: i sali del ferro possono presentarsi in due forme dal comportamento chimico diverso tra loro; si distinguono i sali ferrici dai sali ferrosi. I sali ferrici sono normalmente stabili, ma per svariate ragioni, a volte possono trasformarsi in ferrosi.

Se esponiamo alla luce un sale ferrico (soprattutto un sale organico), esso, più o meno rapidamente si trasformerà in ferroso, in quantità proporzionale alla luce ricevuta.

Per esemplificare meglio faremo un esempio: prendiamo una soluzione di un sale ferrico e stendiamola, con un pennello, su un foglio di carta, quindi attendiamo che asciughi. Prendiamo ora un normale negativo fotografico, poniamolo a contatto sul foglio, ed esponiamo il tutto alla luce; avverrà che nelle zone trasparenti del negativo la luce trasformerà il sale ferrico in ferroso. Insomma avremo un’immagine formata da sali ferrici (zone non esposte alla luce) e sali ferrosi (zone esposte).

I sali ferrosi hanno la caratteristica di essere chimicamente dei riducenti; nel nostro caso, dunque, se mettiamo del nitrato d’argento insieme ai sali ferrici , nelle zone esposte alla luce, i sali ferrosi formati trasformeranno il nitrato d’argento in argento metallico (chimicamente: “ridurranno” il nitrato d’argento ad argento metallico).

Il procedimento appena descritto come esempio va sotto il nome di “kallitipia”, e permette di ottenere immagini argentiche mediante un uso appropriato dei sali ferrici.

Se al nitrato d’argento sostituiremo il cloruro di platino o di palladio otterremo delle immagini costituite di platino o di palladio (Platinotipia o Palladiotipia). Se, invece, metteremo del ferricianuro di potassio otterremo delle immagini blu intense costituite prevalentemente da Blu di Prussia e Blu di Turnbull (Cianotipia). Quest’ultimo procedimento è ancora in uso al giorno d’oggi per la sua economicità e praticità: è la comune cianografia.

Insomma, combinando opportunamente sali ferrici con determinati sali metallici potremo ottenere, e mettere a punto procedimenti in grado di fornire immagini di diversa costituzione fisico-chimica e di differente aspetto.

Storicamente i sali ferrici furono studiati fin dai primordi della fotografia da Sir J. Herschel , cui si deve, tra l’altro, la cianotipia. Il procedimento senz’altro più famoso sarà la platinotipia.

Questa tecnica merita un posto a parte tra i procedimenti ai sali ferrici e, più in generale, tra i procedimenti di stampa fotografica in genere: ci troviamo di fronte, infatti, ad una delle più famose e raffinate tecniche di tutti i tempi.

Esistevano diversi modi per la preparazione della carta al platino, quello che descriveremo brevemente fu, però, senz’altro il più praticato.

Storicamente il procedimento fu brevettato nel 1873 da William Willis; ebbe il suo apice nel periodo pittorialista (sebbene non sia stato assolutamente utilizzato solo dai pittorialisti), cioè tra ‘800 e ‘900.

Alla fine della prima guerra mondiale fu progressivamente abbandonato, come molti altri procedimenti di stampa; una ragione ulteriore che contribuirà alla sua scomparsa fu il forte aumento del prezzo del platino.

La carta al platino era prodotta industrialmente (una delle più famose industrie fu la “Platinotype Company”, fondata dallo stesso Willis) ma frequentemente il fotografo stesso provvedeva alla sua preparazione.

Questo permetteva sia di personalizzare al massimo il procedimento sia di poter preparare di volta in volta il quantitativo di carta strettamente necessario al momento: uno dei problemi principali del procedimento al platino, infatti, era la sua scarsa conservabilità; la carta pronta all’uso poteva essere conservata solo pochi giorni; in presenza di umidità addirittura si poteva alterare in poche ore.

La carta prodotta industrialmente veniva venduta in confezioni metalliche sigillate: una volta aperta la confezione i fogli dovevano essere utilizzati nel più breve tempo possibile anche se conservati nel migliore dei modi. La preparazione “in proprio” consentiva, quindi, di ovviare a questo problema.

Brevettata nel 1873 da Willis, che si era basato per le sue ricerche sulle già citate scoperte sulla sensibilità alla luce dei sali ferrici fatte da Sir John Herschel, la platinotipia si diffuse intorno agli anni ’80 fino alla fine della I guerra, in ambito pittorico e non, essendo uno dei più apprezzati procedimenti di stampa.

Un notevole contributo alla diffusione del procedimento venne dagli studi di G. Pizzighelli e A. Von Hübl che, all’inizio degli anni ‘80, pubblicarono “Die platinotipe”, uno studio fondamentale che fu prontamente tradotto in francese ed in inglese, e divenne un riferimento al riguardo.

Il rapporto tra il costo dei sali di platino e quelli, più comuni, dell’argento, non era così proibitivo come oggi. Il divario divenne maggiore alla fine della I guerra mondiale, il cui effetto fu, tra i tanti, quello di determinare enormi aumenti di tante materie prime; tra questi il platino.

Nel 1919 il maggior produttore di carta al platino introdusse una carta al palladio (platino e palladio sono due metalli dal comportamento molto simile e con minimi aggiustamenti possono essere interscambiati tra loro o anche mescolati) poiché quest’ultimo metallo era più economico pur fornendo immagini di grande qualità. Tuttavia, nonostante questo tentativo, la stampa al platino o al palladio subì la medesima sorte dei tanti raffinati procedimenti fotografici creativi : lentamente scomparvero dalla produzione soppiantati dalle più pratiche carte da stampa a sviluppo.

Al giorno d’oggi chi voglia cimentarsi in questo, che rimane uno dei più bei procedimenti fotografici, si scontra con due ordini di problemi: I) la difficile reperibilità dei prodotti chimici necessari. II) : l’elevato costo, se reperiti, dovuto essenzialmente alle piccole quantità necessarie per il singolo praticante. Per avere prezzi ragionevolmente più bassi ed accessibili occorrerebbe una richiesta molto maggiore che ne giustificasse una produzione su più vasta scala.

La preparazione pratica della carta al platino, una volta che si disponga dei prodotti chimici necessari, è relativamente facile: su una carta di ottima qualità di stende con l’aiuto di un pennello una mescolanza di sali ferrici e di sali di platino. Una volta asciutto il foglio viene esposto alla luce a contatto con il negativo: la luce ridurrà i sali ferrici in ferrosi. Una volta terminata l’esposizione la stampa viene immersa in una soluzione di ossalato di potassio dove l’immagine appare quasi istantaneamente.

I prodotti chimici vengono eliminati con una soluzione diluita di acido cloridrico e la stampa viene poi lavata.

Naturalmente esistono diverse varianti ma quella sopradescritta è la più praticata.

L’immagine finale è data da particelle di platino (o palladio) finemente suddivise ed estremamente stabili nel tempo.

La kallitipia è un procedimento di stampa introdotto negli anni ’80, poco tempo dopo la platinotipia; nella kallitipia si fa uso dei soliti sali ferrici e di sali d’argento, al posto dei ben più costosi sali di platino.

Storicamente esso si può inquadrare nella vasta ondata di procedimenti di stampa nati nel periodo a cavallo tra ‘800 e ‘900 . Periodo in cui una continua creazione e ricerca di nuove possibilità espressive, portò anche alla riscoperta di tecniche cadute in disuso o non giustamente valorizzate.

La kallitipia può definirsi un procedimento al platino “economico”: si basa, infatti, sulla medesima fotochimica ed anche il trattamento è molto simile, anche se, ovviamente, essendo l’immagine finale costituita da argento, le sue caratteristiche saranno differenti, sia nell’aspetto che per quello che concerne la stabilità.